11 Gen Chi sfiderà Trump – S04E02
–297 giorni alle elezioni presidenziali
–23 giorni ai caucus dell’Iowa
È il 20 novembre del 1969, e sull’isola di Alcatraz c’è una sola persona. Il carcere di massima sicurezza dove erano detenute le persone più pericolose degli Stati Uniti era stato chiuso qualche anno prima: costava troppo, non c’era acqua corrente e gli abitanti della baia erano stufi di vedere arrivare a riva i liquami dei detenuti e del personale del carcere. L’unica cosa rimasta in funzione sull’isola era un faro, e l’unico abitante dell’isola era il guardiano del faro. Alle due del mattino di quel 20 novembre il guardiano si accorge che sta succedendo qualcosa. Ci sono delle luci, ma non è il solito peschereccio di passaggio. Innanzitutto perché sono tante. E poi diventano più vicine a ogni giro della luce del faro, finché non diventa chiaro che le luci sono delle torce, cioè delle persone, sopra due piccole barche. Il tempo di afferrare il binocolo per guardare meglio e le barche sono sul punto di attraccare. Ancora un altro giro del faro e le barche sono arrivate, e le persone stanno sbarcando sull’isola, e a quel punto il guardiano riesce a vederle e capisce finalmente cosa sta succedendo. Quindi si volta, molla il binocolo, prende la radio e dice: «Mayday! Mayday! Sono arrivati gli indiani!».
Oggi ritorna anche il podcast di Da Costa a Costa, e il primo episodio racconta l’occupazione di Alcatraz. Potete ascoltarlo gratuitamente cliccando qui sotto, attraverso Spreaker, oppure su Spotify, su iTunes, sull’app Podcast del vostro iPhone e su Google Podcasts. Un nuovo episodio ogni due settimane.
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Prima di cominciare con le notizie e le storie di oggi, vi devo un ringraziamento sincero per la calorosa accoglienza che avete dato al ritorno di Da Costa a Costa. Ci sono più di mille nuovi iscritti che ricevono oggi la loro prima newsletter (benvenuti!), e tanti di voi hanno già contribuito alla raccolta fondi che permette a Da Costa a Costa di esistere e di portarvi sul campo con me. Ho finito di scrivere questa newsletter alle tre del mattino, ma così ogni sforzo è ripagato. Anche i pre-ordini del libro stanno andando bene, ed è una cosa che mi rende particolarmente felice: i vecchi lettori di questa newsletter forse si ricorderanno che scrivere questo libro per me non è stato semplicissimo. Se i nuovi vogliono saperne qualcosa di più, sul sito di Da Costa a Costa ci sono tutte le informazioni del caso.
Ma ora veniamo a noi: parleremo delle primarie del Partito Democratico, del processo di impeachment contro Donald Trump e delle prime ripercussioni che ha avuto il bombardamento contro il generale iraniano Qassem Suleimani.
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Quando mancano tre settimane all’inizio delle primarie del Partito Democratico, con i caucus dell’Iowa, i candidati che plausibilmente si giocheranno la vittoria sono quattro: Joe Biden, Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Pete Buttigieg. Deve succedere qualcosa di veramente sorprendente perché la persona che sfiderà Trump a novembre non sia una di queste. Gli altri sono degli outsider più o meno rilevanti (Andrew Yang, Amy Klobuchar, Tom Steyer, Michael Bloomberg, Tulsi Gabbard) oppure si sono già ritirati (Kamala Harris, Beto O’Rourke, Julian Castro) oppure lo faranno presto (Cory Booker, Deval Patrick).
Ma come si sceglie il candidato del Partito Democratico? Insomma, come funzionano queste primarie? Partiamo dai fondamentali: non si vota in un solo giorno ma c’è un calendario che va da febbraio a giugno, stato per stato, per permettere ai candidati di girare l’America come si deve, per non bloccare sul nascere la strada dei candidati con poche risorse (non bisogna necessariamente essere competitivi da subito in tutto il paese: puoi concentrarti nei posti dove si vota prima, e cercare di costruire le cose un mattone alla volta) e per testare le capacità dei candidati su un periodo lungo, che li espone quindi a un gran numero di scelte, dibattiti, attacchi, performance, e dà il tempo alla stampa e all’opinione pubblica di esaminarli in profondità.
Ogni stato vota con le sue regole, stabilite a volte dal partito locale e a volte dal suo Congresso, ma tutti gli stati mettono in palio attraverso le primarie un certo numero di delegati: cioè le persone che poi durante la convention estiva – ci sarò, vi mostrerò tutto – avranno il compito di scegliere formalmente la persona che il partito ha scelto di candidare. Non è un’elezione diretta, quindi: anche se gli elettori si trovano sulle schede elettorali i nomi dei candidati, votando per loro eleggono i delegati a loro collegati. I metodi elettorali cambiano da stato a stato, anche se la maggior parte degli stati nel 2020 assegnerà i suoi delegati con metodo proporzionale. Ma cambiano di stato in stato anche gli aventi diritto al voto – a volte bisognerà essere iscritti al Partito Democratico, altre volte no – e soprattutto il metodo di voto. In Iowa, il primo stato in cui si vota, le primarie si tengono col metodo dei caucus. E che cos’è un caucus?
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Negli stati che votano con i caucus – ce ne saranno altri dopo l’Iowa – per votare non bisogna recarsi al seggio durante la giornata, barrare la scheda, infilarla nell’urna e andare via. Gli elettori devono invece arrivare tutti a un’ora ben precisa (di solito nel tardo pomeriggio), riunirsi in una specie di assemblea e dichiarare inizialmente (e pubblicamente) la propria preferenza. In Iowa i candidati che a questa prima selezione non raggiungono il 15 per cento dei voti dei presenti nel seggio vengono eliminati. Successivamente si apre una fase che è insieme di dibattito e mercanteggiamento: i sostenitori di ogni candidato parlano e cercano di persuadere i sostenitori dei candidati avversari – quelli eliminati e quelli ancora in gioco – a passare dalla loro parte, a votare per il loro candidato, e lo fanno mescolando agli argomenti politici la loro personale abilità, un po’ di pressione sociale (dato che il voto è pubblico, e ai seggi si trovano facilmente amici, parenti, colleghi) e qualche tenera furbata (c’è sempre qualcuno che ha preparato un dolce o i biscotti e li offre a chi passa col proprio candidato). Alla fine di questo processo – che dura poco più di un’ora – ci si conta di nuovo, e quelli sono i voti del seggio. Sommando i voti di tutti i seggi si arriva al risultato dei caucus. Capite quindi che non è come entrare al seggio, segnare una X e uscire in un momento qualsiasi tra le 7 e le 22: bisogna liberarsi a una certa ora della giornata, impiegare un bel po’ di tempo, sottoporsi a un’attività sociale impegnativa. Il candidato che vince i caucus spesso non è quello che piace di più, in generale, ma quello che può contare su una forte organizzazione e su una grande motivazione di un pezzo dell’elettorato.