15 Feb Ma Bloomberg? – S04E07
–7 giorni ai caucus in Nevada
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C’è una distinta per quanto ancora remota possibilità che a novembre i candidati che si giocheranno la presidenza degli Stati Uniti siano due settantenni newyorkesi milionari, e questo è Da Costa a Costa.
Giusto perché non pensiate che smarrisca la mia identità nazionale dopo aver trascorso un periodo negli Stati Uniti, vorrei cominciare questa newsletter con una metafora calcistica: le campagne elettorali americane sono come partite di calcio. Che banalità, starete pensando. Tutti uguali voi giornalisti italiani. Non avete tutti i torti, ma lasciate almeno che provi a convincervi. Le campagne elettorali italiane, per esempio, non lo sono. Quelle americane sì.
Non esistono due partite di calcio uguali, eppure alcune cose sono uguali in ogni partita di calcio. Per quanto cambino tutte le volte i giocatori, gli allenatori, le condizioni meteorologiche e atmosferiche, le scelte e le bravure e gli errori dei calciatori, il talento dell’arbitro, la fortuna e la sfortuna, eccetera, ci sono alcune cose che valgono sempre e in tutte le partite di calcio. Il campo da gioco è sempre quello. Le regole del gioco sono sempre quelle: se cambiano, quando cambiano, lo fanno di poco e per tutti. Si comincia la partita in undici. Solo il portiere può toccare la palla con le mani. Se la palla esce fuori dal campo sarà rimessa laterale. Se entra in porta è gol. Eccetera. Oltre alle regole, poi, il buon senso e i precedenti pongono dei limiti alla creatività degli attori. C’è sempre la possibilità che un allenatore si inventi una nuova efficace strategia a cui nessuno aveva pensato, ma è implausibile che questa comporti giocare senza portiere o schierare undici attaccanti o decidere di giocare la palla soltanto con la testa. Non funzionerebbe. E come facciamo a saperlo? Lo sappiamo perché abbiamo visto – noi e gli avversari – molte altre partite di calcio. Quello che rende divertente una partita di calcio è proprio osservare il prodotto dell’imprevedibilità, del talento e delle scelte individuali all’interno di un contesto conosciuto, prevedibile, regolato da leggi scritte e non scritte e da principi condivisi e frutto di anni e anni di gioco.
È in questo senso che le campagne elettorali americane somigliano a una partita di calcio. I candidati e le loro strategie cambiano tutte le volte, con i loro talenti, le loro scelte e le loro strategie; così come cambiano tutte le volte le condizioni di salute dei partiti, dell’economia e della società, nonché tutto quello che di casuale può investire un processo così complesso. Eppure c’è un contesto condiviso che fa da regolamento e campo da gioco, molto più di quanto accada in Italia: e che fa sì che le loro scelte e le loro strategie possano cambiare, ma entro certi limiti.
Pensate solo a questo: mentre noi la cambiamo più o meno una volta ogni dieci minuti, negli Stati Uniti la legge elettorale è sempre la stessa. Le regole del gioco hanno avuto qualche grande cambiamento nel corso dei decenni – come quelle del calcio, d’altra parte – ma sostanzialmente sono sempre quelle da decenni se non da secoli: un sistema maggioritario che ruota attorno a due partiti grandi e variegati, le elezioni primarie come metodo di scelta dei candidati, i rappresentanti eletti come classi dirigenti dei partiti. La raccolta fondi, il calendario delle primarie, le convention estive, le strutture dei comitati elettorali, i confronti radiotelevisivi. Tutte cose che possono cambiare nel corso dei decenni e ogni tanto a strappi – com’è cambiato e può cambiare il calcio – ma che lo fanno in modo raro e collettivo. Come racconto nel mio libro, gli Stati Uniti hanno addirittura combattuto una guerra civile senza cambiare forma di governo o legge elettorale, senza colpi di stato, senza sospendere le elezioni e il normale funzionamento della democrazia. Insomma, ogni campagna elettorale è diversa, come ogni partita di calcio, ma il contesto è noto e ha delle sue regole scritte e non scritte. Puoi inventarti quello che vuoi, in una campagna elettorale americana, ma se deciderai di giocare senza portiere o toccare la palla solo di testa perderai la partita.
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Questa caratteristica è una delle cose mi hanno affascinato di più della politica americana, quando ho cominciato a interessarmene. Il fatto che ci fossero una montagna di precedenti storici dai quali provare a imparare qualcosa. Il fatto che fosse possibile studiare e analizzare come candidati e partiti diversi, in momenti storici diversi, avessero cercato di usare e sfruttare a proprio vantaggio tutto sommato lo stesso regolamento di gioco. Il modo in cui tutti imparavano qualcosa dall’esito della campagna elettorale precedente, e anno dopo anno il gioco diventava più complesso e sofisticato. Se a questo punto state pensando che Donald Trump nel 2016 abbia fatto saltare tutto, non avete tutti i torti: un candidato senza alcuna esperienza che vince le elezioni pur prendendo tre milioni di voti in meno della sua avversaria, pur spendendo molti meno soldi di lei, pur perdendo tutti i dibattiti televisivi, è come una squadra che a metà partita scopre che si può vincere toccando la palla soltanto con la testa, o che c’è un modo per cambiare le dimensioni del campo di calcio. Un bug, un glitch del sistema. Quello che succede quando c’è una riga sbagliata di codice dentro Matrix. È stato un glitch che ha delle ragioni molto precise, che ho raccontato nel libro. Ma non è quello di cui voglio parlarvi oggi. Il punto è che nella campagna elettorale del 2020 c’è un candidato che sta provando a cambiare le regole del gioco.
Michael Bloomberg si è candidato alla presidenza degli Stati Uniti il 21 novembre del 2019. Per avere un termine di paragone, Elizabeth Warren si è candidata il 31 dicembre del duemiladiciotto. Mentre tutti i candidati americani pianificano la loro strategia a partire dai primi quattro stati in cui si vota alle primarie, dove trascorrono mesi interi – Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina – Bloomberg ha deciso di saltarli del tutto. Di non competere se non da marzo in poi. Mentre tutti i candidati americani cominciano la loro campagna elettorale costruendosi un apparato di raccolta fondi e un’infrastruttura territoriale di comitati, uffici e volontari, allo scopo di allargarsi fino a potersi permettere i più costosi e redditizi investimenti a disposizione, cioè gli spot televisivi, Bloomberg ha fatto il contrario: ha cominciato a trasmettere spot televisivi, e ha usato quegli spot per smuovere nel paese quelle energie che gli sarebbero servite per costruirsi un’infrastruttura territoriale di comitati, uffici e volontari.
Mentre tutti i candidati considerano cruciale partecipare ai dibattiti televisivi, tanto da spendere moltissimi soldi al solo scopo di ottenerne i requisiti – il miliardario Steyer ha speso più di 10 milioni di dollari in pubblicità solo per ottenere i 130.000 diversi donatori necessari per partecipare a un dibattito televisivo – Bloomberg ha deciso di infischiarsene: non ha partecipato a nessun confronto tv, e se a un certo punto finirà sul palco sarà perché il partito avrà deciso di cambiare le regole. Mentre tutti i candidati americani corteggiano i finanziatori del Partito Democratico, grandi o piccoli che siano, Bloomberg va dai finanziatori del Partito Democratico e gli dice di tenersi i propri soldi: se volete sostenermi, però, non dovete donare a nessun altro.
Michael Bloomberg sta provando a vincere la partita giocando la palla solo di testa.