Obamagate – S04E20

–171 giorni alle elezioni statunitensi

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State per scoprire perché tutti gli scandali americani finiscono per -gate, e questo è Da Costa a Costa.

Dato che andiamo verso il voto con cui gli americani sceglieranno chi sarà il loro presidente nei prossimi quattro anni, ogni tanto è il caso di ricordarsi che tipo di potere abbia la persona che occupa lo Studio Ovale. Certo, nemmeno il presidente degli Stati Uniti ha un potere assoluto, monarchico: ci sono i parlamentari da convincere, giudici e tribunali pronti a intervenire, stampa e opinione pubblica di cui tener conto. Ma esistono situazioni e contesti in cui una sola decisione da parte del presidente degli Stati Uniti può far accadere cose enormi, innescando conseguenze potenzialmente catastrofiche prima ancora che giudici, parlamentari, stampa e opinione pubblica possano anche soltanto accorgersene.

È quello che è successo nel maggio di nove anni fa, quando Barack Obama autorizzò – contro il parere di gran parte del suo staff – una rischiosa operazione per tentare di catturare o uccidere Osama bin Laden. È una storia istruttiva che mostra bene l’estensione del potere e delle responsabilità della persona che ricopre temporaneamente l’incarico di presidente degli Stati Uniti, ed è quella che vi racconto nel nuovo episodio del podcast di Da Costa a Costa. Potete ascoltarla gratis su tutte le piattaforme di podcast: da Spotify all’app Podcast del vostro iPhone, da Spreaker a Google Podcasts. Se volete, dopo averla ascoltata, lasciate una recensione.

Ascolta “S04E10. Geronimo” su Spreaker.

Sabato scorso vi avevo raccontato che Donald Trump sembrava essersi arreso davanti alla possibilità di contenere l’epidemia da coronavirus, e fosse quindi preoccupato esclusivamente dal rimettere in moto l’economia. Questa settimana il presidente ha tentato di completare la sua strategia con un altro tassello: spostare altrove la discussione pubblica. Quando Trump vuole parlare d’altro, di solito prende in mano il telefono: soltanto domenica ha pubblicato o rilanciato più di 100 tweet, accusando di omicidio un giornalista di MSNBC (?!) e rilanciando le più assurde teorie del complotto, comprese quelle che lo vogliono impegnato a combattere un’organizzazione clandestina di pedofili che avrebbe tra i suoi membri George Soros, Hillary Clinton e Barack Obama (lo so, lo so). I giornali lo hanno sostanzialmente ignorato e alcuni se sono stupiti: tre anni fa non sarebbe mai capitato, ma oggi negli Stati Uniti non fa più così notizia che il presidente sbrocchi su Twitter.

Quindi Trump qualche giorno dopo ha rilanciato, puntando due bersagli ben più grossi.

Prima se l’è presa con la Cina – non che fosse difficile, ma già un mese fa vi raccontavo che sarebbe andata a finire così – minacciando addirittura di interrompere ogni tipo di relazione, diplomatica e commerciale. Poi, più o meno dal nulla, ha accusato Barack Obama di aver commesso «il più grande crimine politico nella storia americana». Ai giornalisti che gli hanno inevitabilmente chiesto dettagli, Trump ha risposto: «È l’Obamagate! Lo sapete che cosa ha fatto. Lo sanno tutti».

La teoria che Trump presenta come Obamagate ha due rami. Il primo ramo è il più folle, tanto che persino diversi sostenitori di Trump se ne tengono a debita distanza: sostiene che la Russia non abbia mai interferito con la campagna elettorale del 2016 e quindi che il server del Partito Democratico non sia mai stato attaccato, che i russi non abbiano mai offerto sostegno al comitato Trump, e che tutta quella storia sia stata un’elaboratissima montatura architettata dai Democratici su indicazione del presidente Obama, per incastrare la Russia e soprattutto per incastrare Trump.

Per quanto questa tesi sia stata proposta proprio dal governo russo e oggi venga propalata davvero solo dai più sciroccati – quelli secondo cui le email del Partito Democratico sarebbero state sottratte da uno stagista che per questo sarebbe stato ucciso – più volte Trump ha fatto capire di crederci: nella telefonata col presidente ucraino Zelensky che portò al suo impeachment, per esempio, chiese anche delle informazioni su un presunto “server” in Ucraina dal quale sarebbe stato manipolato il server del Partito Democratico per simulare un attacco russo.

Non solo non esiste nessuna prova a sostegno di quanto sopra: ne esistono moltissime del contrario. Il rapporto Mueller, diffuso ad aprile del 2019, stabilisce e documenta che la Russia ha interferito nella campagna elettorale del 2016 in modo “radicale e sistematico”, attraverso la diffusione di notizie false su Internet e con attacchi informatici contro il comitato Clinton e il Partito Democratico, allo scopo di rubare documenti e email da diffondere online attraverso Wikileaks. Lo stesso rapporto dichiara peraltro che varie persone del comitato Trump – compreso il figlio maggiore di Trump, Donald Jr. – hanno avuto a questo scopo estesi contatti sia con emissari e rappresentanti del governo russo che con Wikileaks, pensando di potersi avvantaggiare da queste attività.

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