30 Mag Risiko e sangue – S04E22
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Potrei come non potrei aver scritto la newsletter più lunga di sempre, e questo è Da Costa a Costa.
È stata una di quelle settimane in cui negli Stati Uniti succedono cose enormi una dopo l’altra, e in cui per scrivere questa newsletter il venerdì vado a dormire praticamente sul fuso orario degli americani. Parleremo di tutto – dall’assassinio di George Floyd alle rivolte di Minneapolis, da Trump contro i social network al ritiro degli Stati Uniti dall’OMS – ma prima facciamo una cosa che in questi primi mesi della quarta stagione di Da Costa a Costa siamo riusciti a fare pochissimo nonostante sia la ragione di esistere dell’intera baracca, chi l’avrebbe mai detto: cominciamo dalla campagna elettorale.
I giornalisti li maneggiano ancora con una certa cautela – chissà che titoloni fra due o tre mesi – ma da un po’ escono con frequenza sondaggi su sondaggi che danno Joe Biden in ampio vantaggio su Donald Trump. Sono i sondaggi che giocano da sempre un ruolo gigantesco nel costruire le direzioni di una campagna elettorale, probabilmente eccessivo, a volte sbagliando ma più spesso azzeccandoci. Sono i sondaggi che di solito a questo punto della campagna elettorale – nel periodo tra la fine delle primarie e le convention, molto più importante di quanto si creda – orientano gli investimenti logistici e pubblicitari dei comitati, e la scelta dei candidati alla vicepresidenza. Eppure se ne parla poco. Il motivo principale è chiaro: questi tempi straordinari ci danno preoccupazioni più assillanti. Ma non c’è solo questo.
Dopo che quattro anni fa molti hanno sbagliato pensando “Trump non può vincere”, molti oggi pensano che “Trump non può perdere”. E più i sondaggi dicono che Biden è avanti, se non addirittura molto avanti, se non addirittura stabilmente avanti come nessun altro candidato dagli anni Quaranta a oggi, più si pensa: non importa cosa dicano i sondaggi. Ma quindi sappiamo già come andrà a finire? I sondaggi non servono proprio a niente, o addirittura fanno danni? E dato che volenti o nolenti nei prossimi cinque mesi sentiremo parlare moltissimo di sondaggi, come possiamo non farci ingannare? Nella nuova puntata di Da Costa a Costa cerchiamo di capirlo una volta per tutte. Lorenzo Pregliasco, cofondatore dell’istituto demoscopico Quorum e del magazine YouTrend, ci aiuterà dandoci qualche dritta per leggere i sondaggi come li leggono gli esperti.
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Dopo aver analizzato sabato scorso le possibili scelte di Joe Biden come vicepresidente – ci torneremo più avanti, ché ci sono delle novità – è arrivato il momento di parlare di strategia elettorale. Nel sistema politico statunitense prendere più voti non basta, come ci ha mostrato Hillary Clinton: serve che la distribuzione geografica dei voti sia efficiente, e quindi bisogna avere una strategia sugli stati in cui competere. Una specie di Risiko.
Prima di cominciare con questa vera nerdata – vi piacerà?, lo spero – urge un brevissimo ripasso del sistema elettorale americano. Il presidente degli Stati Uniti viene eletto formalmente dal Collegio elettorale, un organo che si riunisce una volta ogni quattro anni solo per questo scopo. Il Collegio elettorale è composto da 538 persone, i cosiddetti “grandi elettori”, che vengono elette il giorno del voto. Nel nostro caso: il 3 novembre del 2020. Come vengono elette? Queste 538 persone sono espresse dai singoli stati. Ora, alle elezioni presidenziali americane non c’è un voto nazionale: ogni stato vota per conto suo. E ogni stato esprime, sulla base della sua popolazione, un certo numero di questi “grandi elettori”. I candidati competono dentro ogni stato. Dentro ogni stato, il candidato che ottiene più voti degli altri sceglie tutti i grandi elettori di quello stato. Vince il candidato che ottiene la maggioranza assoluta del Collegio elettorale, cioè chi riesce a esprimere almeno 270 grandi elettori. Il Collegio elettorale si riunisce, vota ed elegge formalmente il presidente. I grandi elettori non sono tenuti a votare per il candidato che li ha scelti, ma lo fanno sempre (e se non lo facessero interverrebbe la Corte Suprema, con ogni probabilità).
Capite quindi che con questo sistema l’ampiezza del distacco in termini di voti non conta, perché non c’è nessuna distribuzione proporzionale dei seggi: in ogni stato, chi prende anche solo un voto in più si porta a casa tutti i grandi elettori dello stato. Vi faccio un esempio concreto. Ci sono due candidati (Mario e Paola) e tre stati (Verde, Giallo e Rosso) che hanno gli stessi abitanti e quindi esprimono lo stesso numero di grandi elettori, 20 ciascuno. Mario vince nello stato Verde ottenendo 95 voti, contro i 5 di Paola. Negli stati Giallo e Rosso invece vince Paola ottenendo in entrambi 51 voti, contro i 49 di Mario. Sul piano dei voti, Mario avrebbe preso 193 voti (95+49+49); Paola ne avrebbe invece presi invece 107 (5+51+51), poco più della metà. Eppure, avendo vinto in due stati, Paola avrebbe espresso 20 grandi elettori, Mario soltanto 10. Tutto chiaro?
Questa è l’America. Il numero dentro ogni stato indica quanti grandi elettori esprime. Sì, quello era product placement.
La mappa da cui partire quest’anno è ovviamente quella delle scorse elezioni presidenziali, novembre 2016. La trovate qui sotto. Tenete a mente, soprattutto i nuovi tra voi, che negli Stati Uniti i colori tradizionalmente associati ai partiti sono opposti rispetto ai nostri: il rosso indica il Partito Repubblicano, cioè il centrodestra; il blu indica il Partito Democratico, cioè il centrosinistra.
Lo so che la volete sapere meglio, questa cosa dei colori.
Gli stati rossi su cui vedete le righe più scure sono quelli che nel 2012 avevano votato in maggioranza per Barack Obama, ma nel 2016 hanno votato in maggioranza per Donald Trump. Se in Ohio e in Iowa la vittoria di Trump è stata larga e attesa, e in Florida il voto è stato equilibratissimo come si pensava (+1,2 per cento per Trump), è in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin che Trump ha vinto le elezioni. Superando Clinton in totale per soli 77.744 voti sui 13.940.912 in tutto in questi tre stati, Trump ha ottenuto 46 grandi elettori senza i quali avrebbe perso. Questi sono anche i tre stati – e gli unici – in cui i sondaggi hanno effettivamente sbagliato, visto che avevano pronosticato la vittoria di Clinton: ma erano anche stati che votavano per i Democratici da decenni, che erano considerati addirittura una loro roccaforte. The Blue Wall, lo chiamavano. Posti di classe operaia, sindacati fortissimi e qualche larga comunità afroamericana.
Per chi ha già vinto le elezioni una volta, come Trump, la strategia per la rielezione di solito è molto semplice: ripetersi. Vincere dove si è già vinto. Vincendo dove ha vinto nel 2016, Trump potrebbe anche permettersi di perdere la Pennsylvania – oppure Michigan, Wisconsin e Iowa insieme – e vincere comunque le elezioni. Quindi: ripetersi. Le opportunità di attaccare Biden per Trump si riducono sulla carta al solo Minnesota, che ha una popolazione bianchissima e dove nel 2016 perse per un soffio. Ma i sondaggi in Minnesota oggi danno Biden avanti di cinque punti.
È più interessante capire invece quale possa essere la strategia di Biden: quale strada, tra le molte possibili, per arrivare a 270 grandi elettori.