13 Giu I shot the sheriff – S04E24
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Avevamo davanti un complesso e generativo dibattito sul razzismo e lo abbiamo trasformato in una noiosissima discussione sulle statue, e questo è Da Costa a Costa.
Doveste chiedermi chi sono i miei personaggi americani contemporanei preferiti, uno dei primi nomi che farei sarebbe sicuramente John Lewis. Forse il primo.
Finché non compì sei anni, John Lewis aveva visto solo due persone bianche in tutta la vita. Era nato nel 1940: ha l’età di alcuni di voi, o dei vostri genitori, al massimo dei vostri nonni. È il terzo di dieci figli di due mezzadri afroamericani che mettendo insieme tutti i loro risparmi erano riusciti a comprare un pezzetto di terra vicino a Troy, in Alabama. Non avevano acqua corrente né elettricità. Coltivavano cotone, mais e arachidi. John Lewis si occupava delle galline e andava a scuola, ma ogni anno durante il raccolto doveva mollare le lezioni per dare una mano ai suoi genitori. Gli piaceva leggere, ma i suoi genitori gli avevano detto che non poteva frequentare la biblioteca della città: era aperta soltanto ai bianchi. Non poteva fare un sacco di altre cose, John Lewis.
La nuova puntata del podcast di Da Costa a Costa racconta la sua vita straordinaria, che può mostrarci quante cose sono cambiate in pochi decenni e soprattutto attraverso quali azioni, strategie e sacrifici. Lo potete ascoltare gratis su tutte le piattaforme di podcast, da Spotify a Spreaker, da Google Podcast all’app “Podcast” che trovate pre-installata sui vostri iPhone.
Ascolta “S04E12. John Lewis” su Spreaker.
In queste settimane molti si sono chiesti se siano questi, quindi, gli Stati Uniti: un paese in cui le manifestazioni pacifiche vengono represse con la violenza e in cui il razzismo pervade ogni aspetto della società. Non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano anche questo. Ma non dimenticate una cosa.
Le decine di migliaia di persone che hanno manifestato pacificamente in ogni città ogni giorno per quasi due settimane – vi ricordate casi simili in Italia, per qualsiasi causa? – sono statunitensi anche loro. E gli Stati Uniti sono anche il posto in cui la discussione pubblica sul razzismo è avanzata, vivace e partecipata come in nessun altro paese al mondo, e in cui esiste un’industria culturale in grado di partecipare a questo dibattito con un’elaborazione, una qualità e un’influenza da cui tutti gli altri, volenti o nolenti, possono solo imparare. Il posto in cui le persone riescono a cambiare idea con una rapidità che ogni tanto produce degli strappi, delle accelerazioni inaspettate nel lento percorso di cambiamento delle nostre società.
Sembra che nelle ultime settimane sia avvenuto uno di questi strappi.
Il 76 per cento degli americani (dato che comprende il 71 per cento dei bianchi) pensa che il razzismo e le discriminazioni siano un grosso problema del paese, ha detto un nuovo sondaggio dell’affidabile Monmouth University. Il 78 per cento ha risposto che la rabbia dei manifestanti è giustificata. Secondo un altro sondaggio, stavolta di Reuters/Ipsos, circa il 90 per cento degli americani crede che sia necessaria un’incisiva riforma della polizia. Un altro sondaggio ancora svolto in questi giorni, commissionato da Wall Street Journal e NBC, dice che l’80 per cento degli americani è più preoccupato dalle violenze della polizia che da quelle dei manifestanti.
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Questi dati comprendono una parte significativa di elettori del Partito Repubblicano, e sono confermati da quanto poco stiano attecchendo – nell’opinione pubblica e sulla stampa, compresa quella conservatrice – gli argomenti “legge e ordine” del presidente Trump.
Non è del tutto nuovo che gli americani cambino rapidamente idea su qualcosa. Negli ultimi anni è successo per il matrimonio gay e la legalizzazione della marijuana, per esempio, questioni politiche un tempo tabù e che ora incontrano un tale gradimento che persino i contrari le considerano battaglie perse. Sembra che in questi giorni stia succedendo un altro smottamento, con le discriminazioni razziali in generale e le violenze della polizia in particolare, e infatti stiamo vedendo già delle conseguenze.
Il numero di aziende che si sono schierate dalla parte dei manifestanti è gigantesco: e non sono aziende che prendono queste decisioni alla leggera o senza valutarne le conseguenze. Il capo della lega di football americano, che aveva trattato con disprezzo i giocatori che si inginocchiavano per protesta durante l’inno nazionale, ha detto che aveva torto. Sia il Pentagono che alcuni Repubblicani del Senato si sono detti favorevoli alla possibilità di cambiare il nome delle basi militari intitolate ai leader confederati, cioè quelli del sud schiavista che cercò la secessione attraverso una guerra civile (il fatto che ci siano basi militari statunitensi intitolate a persone che hanno provato a distruggere gli Stati Uniti è sempre stato piuttosto strano). Persino l’ultraconservatrice lega automobilistica NASCAR ha chiesto ai suoi tifosi di non portare più le bandiere confederate alle corse.
Soprattutto, in tutte le città, in tutti gli stati, al Congresso e alla Casa Bianca si sta discutendo seriamente di come riformare la polizia.
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Perché è avvenuto questo strappo? Potrei cavarmela limitandomi a ribadire quanto sopra: è una cosa che gli americani fanno, di tanto in tanto. Ma sarebbe un po’ troppo furbo, e facile da dire col senno di poi. Proviamo a ragionarci meglio allora.