27 Giu Frigge – S04E26
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La newsletter di oggi vi farà scuotere la testa ma ricordate che noi abbiamo passato una settimana a discutere di Raffaele Morelli e Vittorio Sgarbi, e questo è Da Costa a Costa.
Se è vero – ed è vero – che negli Stati Uniti il razzismo non è solo un fenomeno espresso dai comportamenti prepotenti o violenti di chi pensa che un’etnia sia superiore a un’altra, e che produce quindi singoli per quanto isolati episodi di razzismo, ma una discriminazione sistematica determinata dalle leggi introdotte per secoli allo scopo di marginalizzare gli afroamericani, e dalla cultura che ha prodotto e che è stata prodotta da quelle leggi, allora anche le persone che dicono o fanno cose razziste le dicono o le fanno per ragioni che superano la mera dimensione individuale. Anche in quel caso c’entrano le leggi di cui hanno beneficiato, la cultura in cui sono stati immersi, i modelli che hanno avuto, le cose che gli sono state dette, le scelte che hanno potuto o non potuto fare nelle loro vite.
Non voglio spingermi in un discorso eccessivamente determinista, e credo nella possibilità di ciascuno di noi di cambiare idea, di migliorarsi e anche di emanciparsi dalla cultura e dai modelli che lo hanno formato: ma anche queste capacità dipendono dagli stimoli e dall’istruzione che riceviamo o non riceviamo, dagli incontri che facciamo o non facciamo nelle nostre vite e da un sacco di altre cose più o meno casuali, fino ad arrivare banalmente al patrimonio genetico di ciascuno di noi. La sto prendendo larga, lo so. Ma ecco dove voglio arrivare: la sconfitta concreta del razzismo passa necessariamente dall’eventualità o meno di mettere dalla stessa parte persone che oggi pensano di competere per squadre diverse. Almeno una parte.
Ci sono alcuni razzisti che vanno sconfitti e basta. Ma ce ne sono molti altri che vanno convinti. Bisogna farlo, a meno di voler aspettare che si estinguano. Per convincerli serve – anche, non solo – un discorso che non inneschi reazioni istintive di difesa: non per non violare la loro sensibilità, ci mancherebbe, ma perché altrimenti è molto più difficile. Un discorso che convinca tutti che un paese meno razzista e più equo è un paese migliore in cui vivere anche per i bianchi, non solo per i neri. Il problema del razzismo dipende dalla storia delle nostre società molto più di quanto dipenda da chi di noi è buono e chi di noi è cattivo, e la sua soluzione deve quindi comportare una crescita collettiva: non può limitarsi alla sconfitta e alla resa di una delle due parti.
L’ultima volta che qualcuno negli Stati Uniti ha provato a fare un discorso del genere, e muovere tutto il paese nella stessa direzione, era il 18 marzo del 2008. Nella nuova puntata del podcast di Da Costa a Costa, uscita oggi, vi racconto quel momento che fu immediatamente definito storico, e il modo in cui ci si arrivò. La potete ascoltare gratis su tutte le piattaforme, da Spotify a Spreaker, dall’app Podcast che avete sui vostri iPhone a Google Podcasts.
Ascolta “S04E13. Ancora più perfetta” su Spreaker.
Dunque. Se a maggio vi avessero detto che per tutto il mese di giugno negli Stati Uniti il principale tema di discussione – nonché il fatto di maggiori proporzioni – non sarebbe stato l’epidemia da coronavirus né la crisi economica, cosa avreste pensato? Visto con che rapidità possono succedere cose grandi in una campagna elettorale? Mancano poco più di quattro mesi alle elezioni presidenziali e possono accadere più cose di quelle che immaginiamo, e cambiare il panorama in un verso o nell’altro.
Eppure.
Eppure se alla fine il 3 novembre Donald Trump non dovesse essere rieletto, probabilmente ci diremo che la settimana appena conclusa è stata quella in cui è cominciata la sua sconfitta: quella in cui le crepe che si vedevano da mesi sono diventate dei crepacci. Joe Biden può ancora perdere tutto il vantaggio di oggi, ma se alla fine il 3 novembre Donald Trump non dovesse essere rieletto, probabilmente ci diremo che la settimana appena conclusa è stata quella in cui il continuo tuonare di una presidenza come nessun’altra si è risolto in un’implosione, e non in un’esplosione.
Il comizio di Trump a Tulsa è stato un flop di cui si è parlato in tutto il mondo. Il comitato Trump si attendeva almeno 50.000 persone e aveva annunciato di aver ricevuto un milione di conferme di partecipazione, tanto da aver allestito anche un’ampia area con un palco e un maxischermo fuori dal palazzetto. Invece il palazzetto è rimasto vuoto per due terzi e fuori non c’era proprio nessuno. Il numero delle conferme di partecipazione è stato gonfiato da una campagna nata spontaneamente tra gli adolescenti sul social network TikTok, ma i “biglietti” presi dai ragazzini non hanno tolto il posto a nessuno perché erano infiniti (altrimenti mica ne avrebbero distribuiti un milione). Per entrare al comizio bastava mettersi in fila. Le persone non sono andate per paura di contagi e incidenti, paura probabilmente alimentata dal modo in cui il comitato Trump aveva annunciato trionfalmente che l’evento sarebbe stato affollatissimo.
La comunicazione politica è spesso un gioco di aspettative. Gonfiare le aspettative per poi deluderle è un errore da dilettanti. Al comitato Trump non sono dilettanti, ma quando il desiderio di compiacere e tranquillizzare il capo arriva fino all’autolesionismo di dargli e fargli diffondere dei numeri assurdi, vuol dire che le cose vanno proprio male. E infatti le cose vanno male, ma qui bisogna dire una cosa in più: quando il candidato la cui campagna sta affondando disastrosamente è il presidente degli Stati Uniti, le cose si mettono male per tutti e non solo per lui. Purtroppo sta succedendo.